Molto prima che giungessero in Duomo (ve le ricordate?), portate da una catena di caffè americano, le palme sono arrivate a Milano, in piazza Leonardo da Vinci, con quasi un secolo d’anticipo.
Nel 1915 veniva posata la prima pietra del complesso di Città Studi, e poco dopo venivano piantate anche le prime palme. Le cartoline dal passato, che ci portano i saluti di quell’epoca, ci raccontano che le palme erano lì anche negli anni ’30 e ’40. In quella “distesa dei prati di Lambrate”, come la definì Carlo Emilio Gadda, sorse un paesaggio esotico, panorama africano sotto il quale i primi studenti diedero inizio alla Storia. Nel 1920 si laureava in Ingegneria Elettronica al Politecnico proprio l’autore di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Un anno prima si laureava in Architettura Gio Ponti. All’ombra di una palma ci si preparava al futuro.
Le cartoline sono arrivate a noi grazie al bel progetto di archivio virtuale Milano Sparita e da Ricordare, una pagina Facebook che raccoglie immagini e foto della Milano di una volta. Tanti i commenti e le condivisioni delle foto del Politecnico al tempo delle palme. C’è chi scrive: “Mio padre se lo ricorderebbe così” e chi informa che “Sono state sostituite nell’immediato dopoguerra con robinie e cespugli di pungitopo”. Alla base di questa raccolta c’è la voglia di riscoprire insieme le meraviglie passate e attuali “di una città che in molti pensano sia solo nebbia e smog”, dicono gli amministratori della pagina. E, invece, aggiungiamo noi, è anche palme vintage.
Il MAP è una delle tante iniziative creata da Alumni Politecnico di Milano. Se ti piacciono questa e le altre attività gratuite per tutti i laureati, puoi sostenerle con una donazione.
Ricerca e innovazione tecnologica, da un lato, per lo sviluppo di ortesi di nuova generazione; sul fronte sociale invece, la ricerca ha coinvolto le famiglie, gli insegnanti della scuola primaria e le associazioni sportive. L’obiettivo è compensare il deficit funzionale dei bambini emiplegici, permettendo loro di avvicinarsi alla pratica sportiva insieme ai loro compagni di classe.
È il progetto GIFT (enGIneering For sporT for all) del Politecnico di Milano, ed è tra i vincitori dei 2021 #BeInclusive EU Sport Awards, la competizione promossa dalla Commissione Europea per celebrare le organizzazioni che ricorrono allo sport per migliorare l’inclusione sociale di gruppi svantaggiati. GIFT ha ottenuto il primo posto nella categoria “Breaking barriers” Abbattere le barriere, dedicata a progetti che danno dimostrazione del concetto di resilienza fornendo esempi di come superare gli ostacoli alla partecipazione all’attività sportiva.
Come punto di partenza, la ricerca si è concentrata su 19 bambini emiplegici frequentanti la scuola primaria, con l’ambizione futura di estendere il progetto nel tempo ad altre disabilità motorie, cognitive e sensoriali.
A cura del laboratorio E4Sport, laboratorio interdipartimentale del Politecnico di Milano dedicato al mondo dello sport, GIFT è partito nel 2019 grazie alle vostre donazioni del 5 per mille e con il supporto di numerosi partner: IRCCS Eugenio Medea – Associazione La Nostra Famiglia, Università Cattolica di Milano, le associazioni Edumoto Yuky ONLUS, Polha Varese e Polisportiva Milanese 1979 Sport Disabili Onlus, assieme alle aziende ITOP, BTS e Math&Sport. Il progetto si avvale inoltre della collaborazione di Claudio Arrigoni (Gazzetta dello Sport).
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Sono 10 i team di Formula 1 equipaggiati con sistemi frenanti e frizioni Brembo: “Nel mondo racing è ancora la sostanza a fare da padrona”, commenta Algeri. “Una storia iniziata quasi 50 anni fa, nel 1975, dai primi freni in ghisa”, storia che oggi è più che una sfida: è una rivoluzione totale, come l’ingegnere definisce il nuovo cambio di regolamento. Che non è il certamente il primo. Rivoluzioni che hanno ripercussioni a cascata sulla vita di tutti, perché il motorsport è il più grande campo di sperimentazione dell’automotive, un laboratorio collettivo e un luogo dove serve, oltre alla competenza, anche un esercizio di fantasia, di visione:
“Siamo leggermente più avanti di quanto possiate pensare. Cerchiamo di immaginare il futuro e come sarà. Adesso è l’elettrico, il recupero di energia è al centro dell’attenzione dei nostri tecnici e progettisti”.
Brembo, azienda leader nel mondo del MotorsportPinza freno Brembo per DucatiCredits: Gazzetta Motori
L’immaginazione accomuna tutti gli Alumni che lavorano in Formula 1: come Lucia Conconi, Alumna Ingegneria Aerospaziale e Head of Vehicle Performance in Alfa Romeo F1 Team ORLEN, che alla redazione Alumni ha raccontato la doppia anima, quella in laboratorio e quella in pista, di ogni team F1; o Alberto Taraborrelli, Trackside Control Systems Engineer in Alpine F1 Team, che ci ha raccontato i giorni a ridosso dell’inizio del mondiale: “sono tra i più duri e difficili dell’anno, specialmente perché le macchine sono così diverse e quindi così sconosciute”. Taraborrelli ha sempre sognato di lavorare in Formula 1. Si è laureato in Ingegneria Meccanica a indirizzo meccatronica e robotica e, del Poli, il ricordo più bello è quello del Dynamis PRC, team di Formula Student del Politecnico di Milano.
Nature Photonics ha pubblicato uno studio frutto di una collaborazione tra Politecnico di Milano, CNR e Università di Vienna, dedicandogli anche la copertina del numero di aprile della rivista. Non capita tutti i giorni: e in effetti è stata fatta una cosa mai fatta prima. I giornali ne stanno parlando come del primo “neurone artificiale quantistico” (per esempio ne parlano Ansa e RaiNews). Promette di diventare l’anello mancante per collegare quantum computing e intelligenza artificiale. Perché è così importante? A cosa può servire?
L’abbiamo chiesto a Andrea Crespi, ricercatore del Politecnico di Milano e Alumnus PhD in ingegneria Fisica, parte del team che l’ha messo a punto.
LO STATO DELL’ARTE FINO A OGGI
Alcune tra le reti neurali “classiche” più efficienti, su cui si basano i moderni algoritmi di intelligenza artificiale, sono composte da connessioni tra “neuroni artificiali” chiamati memristor (memory-resistor). Si tratta di componenti elettronici che cambiano la loro resistenza elettrica sulla base di una memoria della corrente che li ha attraversati in precedenza. Le reti neurali artificiali possono essere “educate” all’apprendimento grazie a questa proprietà: è così che imparano a svolgere compiti complessi, quali comprendere un discorso, riconoscere un volto, interpretare immagini (ad esempio a scopi diagnostici) o guidare un’automobile (anche da corsa: lo fa la squadra Polimove, che programma l’auto a guida autonoma più veloce al mondo). È la tecnologia alla base dell’intelligenza artificiale.
POI ARRIVA IL QUANTUM COMPUTING
Fin qui, abbiamo parlato di dispositivi elettronici. Nel frattempo, però, il mondo scientifico ha sviluppato anche una nuova generazione di informatica, il quantum computing. La differenza fondamentale è che, invece di utilizzare impulsi elettronici, la computazione quantistica sfrutta singole particelle per codificare l’informazione. Ad esempio, impulsi ottici costituiti da singoli fotoni, che hanno un comportamento diverso da quello della corrente elettrica. Ne risulta un potere di calcolo potenzialmente assai superiore a quello dei maggiori supercomputer “classici” (cioè elettronici).
Siccome il vantaggio del quantum computing aumenta proporzionalmente al numero delle operazioni da effettuare, è particolarmente efficiente nel caso di alcuni problemi che richiederebbero, a un dispositivo elettronico, un altissimo numero di operazioni (e quindi ti tempo ed energia) per essere risolti. Esempi di applicazione si trovano per esempio in crittografia, negli algoritmi di ricerca e nelle simulazioni di sistemi fisici.
L’ANELLO MANCANTE
I computer quantistici non sono una novità, tuttavia ancora oggi una vera e propria una rete neurale quantistica non è ancora stata realizzata. Mancava, infatti, un fondamentale anello mancante: il quantum memristor, il neurone artificiale quantistico. “L’idea esiste da alcuni anni, ma solo recentemente un gruppo di fisici dell’Università di Vienna ha dimostrato che si poteva fare”, commenta Crespi. Il suo gruppo di ricerca, guidato dal prof. Roberto Osellame, ha progettato e ingegnerizzato il primo vero e proprio prototipo di quantum memristor, un dispositivo ottico con le stesse caratteristiche funzionali del memristor, capace di operare su stati quantistici della luce:
“L’informazione non è più codificata in un segnale elettronico, come nel memristor classico. Quello che varia è invece la trasmissione ottica, cioè la quantità di luce che può passare attraverso il device, in funzione qui quella che ci è passata prima”.
Un oggetto del genere era stato fino ad oggi soltanto teorizzato. Quello realizzato dal Politecnico è quindi il primo prototipo di memristor quantistico: forse, il primo “neurone” di una rete neurale artificiale quantistica.
10 anni sui social sono tanti, e quello che abbiamo notato durante questo tempo insieme a voi Alumni è che niente (niente!) vi scatena in positivo e in negativo – ma soprattutto in positivo! – come un bel viaggio nei ricordi politecnici.
Così abbiamo deciso di appuntarci luoghi e situazioni che solleticano la vostra nostalgia, e il risultato è stato un elenco lunghissimo. Dopo un’accurata selezione, siamo arrivati a stilare un decalogo delle “10 cose che ti mancano del Poli”. Sicuramente ce ne sono di più, sicuramente alcune ce le siamo dimenticate o non hanno raggiunto la top 10: in questo caso, scrivetecelo nei commenti! Chissà, magari riusciremo a scrivere la puntata 2…
Siete pronti? Iniziamo!
1. La piscina di via Ponzio
Chi aveva lezione o esami al Trifoglio d’estate sapeva che il suo spirito sarebbe stato messo alla prova non solo dallo studio, ma anche dall’eco dei tuffi provenienti dalle finestre aperte. Una cosa è certa: ne siete usciti temprati sia fisicamente che moralmente.
Blu, rosso e giallo sono i colori che vengono in mente quando si parla di Bovisa, ma – per i più giovani – anche i tantissimi murales che l’hanno trasformata in un vero e proprio museo a cielo aperto.
3. Le nottate di studio al patio di architettura
Eterno melting pot di facoltà da mattina a sera, dove affrontare sessioni di studio matto e disperatissimo e dove confrontarsi.
I progetti vincitori dell’edizione 2020 di Polisocial sono partiti la scorsa primavera, quando le energie dell’Ateneo erano in particolar modo tese a sostenere il contesto sociale in un momento ancora molto delicato dal punto di vista dell’emergenza pandemica. Il Politecnico ha voluto valorizzare gli sforzi dei gruppi di ricerca, dedicando 500 mila euro (donazioni 5 per mille del 2018) al tema «Vulnerabilità e Innovazione», che pone attenzione ai contesti di fragilità sanitaria e alle conseguenze sociali che si portano dietro.
Risparmiare acqua e portare tecniche produttive dove non ci sono
Il progetto di Hands, finanziato con le donazioni del 5 per mille, trasaferisce le competenze politecniche in Mozambico.
Dipartimenti: DASTU, DCMC, DABC, DENG, DICA Tag: salute, spazio urbano, slum upgrading Contesto: Maputo, Mozambico Partner: AICS Mozambico, AVSI, Architetti Senza Frontiere Italia e Spagna, Universidade Eduardo Mondlane.
Credits: Polisocial
La recente pandemia ha evidenziato la vulnerabilità della popolazione che vive nel quartiere di Chamanculo a Maputo, vulnerabilità che tuttavia era preesistente, a causa della mancanza di servizi sanitari, dell’inadeguatezza dell’infrastruttura urbana come strade e spazi pubblici), del sovraffollamento e dell’inadeguatezza nella gestione dei rifiuti.
I ricercatori del Politecnico, con il progetto HANDS, hanno attivato un “Laboratorio Sociale” dedicato alla produzione di Polichina, il liquido igienizzante Made in Politecnico. Oltre all’immediata utilità pratica, questa iniziativa ha anche lo scopo di trasferire conoscenze e competenze agli attori locali, per una migliore gestione dei rifiuti e per un modello di produzione energetica adatto sia alla scala urbana che a quella domestica.
«Immaginiamo un sistema automatizzato poco più grande di una macchinetta da caffè», spiega l’Alumnus e ricercatore Mattia Sponchioni, «a questo colleghiamo quattro serbatoi diversi contenenti gli elementi per produrre la Polichina: acqua, etanolo, acqua ossigenata e glicerolo. Si imposta una precisa quantità e il sistema la produce”. Il prototipo sarà testato in alcuni punti nevralgici di Chamanculo come scuole, piazze, mercati: stazioni di rifornimento quindi da integrare con un sistema di gestione intelligente dei rifiuti generatisi in seguito all’emergenza sanitaria, come mascherine e dispenser di liquido igienizzante.
Nel “Laboratorio Sociale” si sperimenteranno inoltre metodi di produzione di energia elettrica per l’alimentazione dei distributori di Polichina e per l’approvvigionamento locale delle materie prime da fonti rinnovabili in situ. In questa particolare situazione, l’uso di Polichina ha un impatto positivo anche in termini di risparmio di acqua. «Riduciamo il consumo dalla scala dei litri a quella dei millilitri», commenta Sponchioni, «nel lavaggio delle mani si consumano litri di acqua potabile, con la Polichina basta una nebulizzazione di pochi millilitri, andando a risparmiare oltre il 95% di acqua che, soprattutto nei luoghi più degradati e dove c’è il pericolo di altre patologie come la tubercolosi, scarseggia».
Si può collegare tanti pazienti allo stesso respiratore?
Con i comuni ventilatori, è un azzardo. Il Poli ha progettato MakingMEV, un ventilatore multiplo, per la ventilazione assistita di 10 pazienti contemporaneamente.
Dipartimenti: DEIB, DMEC, DIG Tag: ventilazione respiratoria, supporto emergenziale, innovazione clinica Partner: Alberto Zanella, anestesista e rianimatore presso Fondazione IRCCS Ca’ Granda – Ospedale Maggiore Policlinico (Milano) e ricercatore presso il Dipartimento di Fisiopatologia Medico-Chirurgica e dei Trapianti, Università degli Studi di Milano
Photo by Adhy Savala on Unsplash
Il sistema MEV (Multiple Emergency Ventilator) è una rivisitazione del supporto emergenziale alla ventilazione respiratoria: un ventilatore in grado di supportare la respirazione di fino a 10 pazienti contemporaneamente, intrinsecamente sicuro e personalizzato per ciascun paziente.
Il suo cuore è una miscela di ossigeno a pressione inspiratoria massima intrinsecamente sicura (Ppeak), per prevenire il danno da ventilazione meccanica. La ventilazione è fornita un massimo di 10 pazienti, assistiti in modo personalizzato riguardo al volume controllato e alle durate inspiratorie ed espiratorie. Il sistema meccanico è composto da una campana rovesciata con tenuta ad acqua, che fissa il Ppeak in base al principio di Archimede. La campana, in acciaio inox, del diametro di 50 cm e con una altezza di 60/70 cm, è inserita all’interno di un cilindro, che grazie all’intercapedine d’acqua mantiene l’ossigeno alla pressione desiderata. Il gas è distribuito ai pazienti intubati mediante semplici tubi di acciaio inox da 2” facilmente montabili, autoportanti e modulari per poter essere adattati a diversi ambienti come triage, ospedali da campo, ospedali normali. L’intero sistema di distribuzione è compatibile con alte concentrazioni di ossigeno.
L’unico “pezzo speciale” nel progetto del MEV è la campana. Per la linea comune è composto da elementi di utilizzo industriale, mentre gli stacchi inspiratori ad ogni paziente e la linea espiratoria sono mutuati dai comuni ventilatori. Tutte le parti meccaniche possono essere conservate in magazzino per un tempo indefinito e sanificate per essere usate subito nel momento del bisogno, al contrario dei ventilatori tradizionali che, se conservati troppo a lungo, prima dell’uso hanno bisogno di una manutenzione che può durare fino a un mese: specialmente in momenti di emergenza su larga scala, come quella occorsa nel corso della pandemia di Coronavirus. MEV potrebbe quindi evitare il congestionamento delle aziende di manutenzione e provvedere all’intubazione di emergenza di un alto numero di pazienti contemporaneamente.
“L’idea è nata durante l’onda pandemica italiana di inizio 2020”, spiega l’Alumnus, e ricercatore del Politecnico di Milano, Beniamino Fiore. Tuttavia, in un panorama di più ampio respiro, si prevede un beneficio per situazioni emergenziali in generale, e per i sistemi sanitari meno organizzati di Paesi in via di sviluppo”, e aggiunge “MakingMEV è stata la nostra risposta all’emergenza, il nostro modo di dire: facciamo qualcosa di concreto!”.
Dal Poli nuove tecnologie per la sicurezza del supporto respiratorio
Il progetto SAFER, finanziato con le vostre donazioni del 5 per mille, sviluppa un respiratore portatile e poco costoso per contesti a basso e medio reddito.
Dipartimenti: DEIB, DMEC, DCMC Tag: tecnologie respiratorie, emergenze, aree a scarsità di risorse Contesto: Vietnam, Africa Occidentale, Italia Partner: MTTS Asia (impresa sociale); ONG Day One Health; Società Italiana di Neonatologia; CUAMM ONG; ASST Bergamo – Dipartimento di Pneumologia; altri professionisti medici
credits: Polisocial
Nei paesi a basso e medio reddito, la mancanza di ossigeno e ventilatori per l’assistenza respiratoria causava migliaia di morti all’anno anche in tempi pre-pandemia, con patologie come polmonite infantile, distress respiratorio neonatale, emorragia postpartum e lesioni traumatiche – che sarebbero prevenibili con una disponibilità diffusa ed equa di risorse di supporto respiratorio. Il progetto SAFER, iniziato la scorsa primavera, mira a sviluppare un dispositivo respiratorio personale, semplice, robusto, portatile e poco costoso (una semplice interfaccia utente che include un monitor della saturazione di ossigeno) per la somministrazione di supporto respiratorio al di fuori delle unità di terapia intensiva, soprattutto in situazioni a risorse limitate. Il gruppo di ricerca ha progettato il dispositivo integrando i sottosistemi e ottimizzando l’efficienza della compressione dell’aria, rendendo il dispositivo robusto ed in grado di operare anche in condizioni non ideali.
Al vaglio, nuove tecnologie di produzione e materiali innovativi, come pezzi di ricambio dei materiali di consumo stampati in 3D, che facilitano la loro fornitura durante le emergenze e nei paesi a basso e medio reddito, oltre a sistemi di controllo intelligente che adattino la produzione di ossigeno alle necessità del paziente, sincronizzando l’erogazione di ossigeno alla respirazione del paziente. Tale soluzione potrebbe essere infatti utilizzata nella terapia domiciliare anche in contesti più vicini al nostro, per esempio nel caso di pazienti con malattie respiratorie croniche o lievi, risparmiando le risorse di terapia intensiva per i pazienti gravi, alleviando la pressione sui centri di terapia intensiva. In contesti con poche risorse, l’adozione della tecnologia proposta e delle competenze acquisite con il programma di capacity building ridurrà la mortalità associata a malattie respiratorie acute, anche in tempi ordinari, riducendo le morti prevenibili.
Un’idea semplice per combattere la mortalità post parto delle madri
Balloon Against Maternal BleedIng, nome in codice “BAMBI”: finanziato con le vostre donazioni del 5 per mille.
Dipartimenti: DCMC, DMEC, DESIGN Tag: emorragia post-partum, accesso alle cure, tecnica CBT Contesto: Africa Centrale, Sud America, Sudest Asiatico Partner: Dr. Alberto Zanini; CUAMM – Medici con l’Africa; Soleterre Onlus
credits: Polisocial
L’emorragia post-partum (EEP) è un’emergenza ostetrica globale: è la principale causa di mortalità materna al mondo. Dei circa 140.000 decessi per EPP annuali, il 99% avviene nei paesi in via di sviluppo, con costi sociali devastanti per comunità già fragili a causa di condizioni economiche precarie. Nei casi più gravi di EEP si può giungere a perdite di mezzo litro di sangue al minuto arrivando, nel giro di pochi minuti, alla morte della paziente. In paesi in cui i parti avvengono per lo più in ambito domestico, senza la presenza di un medico, ed è spesso difficile (se non impossibile) raggiungere in tempo un ospedale in caso di EPP. Mentre lo standard di riferimento per la gestione della EPP nei paesi industrializzati è il dispositivo Bakri®, a causa del suo elevatissimo costo non si presta ad applicazioni su larga scala nei paesi in via di sviluppo. Obiettivo principale del progetto BAMBI è realizzare un nuovo dispositivo in grado di eseguire una corretta ed efficace gestione della EPP con un costo inferiore ai 5 dollari per unità.
Il dispositivo deve essere facile e intuitivo per essere usato, nei casi più estremi, anche senza il supporto di personale medico o in ospedali da campo. Dopo la realizzazione del primo prototipo, grazie ai finanziamenti ricevuti tramite donazione del 5 per mille, nel 2021 i ricercatori si sono concentrati sulla risoluzione di alcuni problemi tecnici legati alla disponibilità dei materiali, alle modalità di assemblaggio dei vari componenti e all’impossibilità di eseguire l’operazione in ambiente sterile. È in corso di avvio l’iter di validazione e di sperimentazione sul campo.
Città e Case della Salute per Comunità resilienti
Mettiamo a terra il progetto per una sanità territoriale. Un progetto di ricerca finanziato con le donazioni del 5 per mille.
Dipartimenti: DASTU, DABC, DIG, DESIGN, DMEC Tag: assistenza socio-sanitaria, cultura della salute, innovazione urbana Contesto: Piacenza, Italia Partner: Azienda USL di Piacenza; Comune di Piacenza; Comitato Consultivo Misto delle Associazioni; Regione Emilia-Romagna; Associazione Diabetici Piacenza; Comitato Sportivo Italiano (CSI) – Comitato Territoriale di Piacenza
Credits: Polisocial
L’emergenza legata alla diffusione dei contagi da Covid-19 ha evidenziato le vulnerabilità del nostro sistema sanitario nazionale, con le sue strutture entrate rapidamente in sofferenza per la debole risposta dei servizi territoriali. Proprio al potenziamento della rete sul territorio, attraverso il ruolo centrale delle Case della Salute della Comunità (CdS), anche definiti Centri Socio Sanitari Territoriali, è rivolto il progetto di ricerca Coltivare_Salute.com. Un progetto multidisciplinare che affianca alle competenze mediche dell’Azienda USL di Piacenza e a quelle di altri partner istituzionali e del volontariato, quelle dell’architettura, dell’ingegneria gestionale e del design della comunicazione.
«Già prima della pandemia», spiega la ricercatrice Maddalena Buffoli, «avevamo condotto lavori di ricerca e visitato alcune Case della Salute di eccellenza, anche in contesto europeo, che rappresentavano un punto di riferimento per l’assistenza sul territorio. Tali strutture hanno l’obiettivo di essere un riferimento per il cittadino per tutte quelle patologie o quegli eventi meno gravi che non richiedevano un’emergenza da gestire in ospedale: poliambulatori, centri prelievi, servizi di prevenzione, raggruppamenti di medici di base, diagnostica di base, pronto soccorso per codici minori, ambienti adatti alle procedure per le cronicità».
La salute è intesa come benessere psicofisico delle persone e pertanto le Case della Salute affiancano al ruolo sanitario anche quello sociosanitario e sociale, puntando alla presa in carico completa della persona con le sue problematiche in un’idea integrata di assistenza di prossimità. L’obiettivo della ricerca è definire le Linee Guida progettuali, organizzative, comunicative e di localizzazione delle Case della Salute post-Covid, in particolare in ambito urbano: non più solo centri di erogazione di servizi sanitari ma occasioni di rigenerazione urbana, sociale, architettonica e ambientale dove “coltivare salute” nei quartieri. Per valorizzarne la funzione territoriale, la ricerca ha attivato un tavolo di coprogettazione con l’Azienda USL della città di Piacenza, sede di uno dei poli territoriali dell’Ateneo, che prevede la realizzazione di una nuova struttura, la quale costituirà una condizione di sperimentazione operativa e metodologica di un progetto applicabile a tutte le Case della Salute per la Comunità sul territorio nazionale.
Il Politecnico di Milano ha ottenuto dalla Commissione europea due importanti finanziamenti per due progetti di ricerca: uno per la lotta al tumore al seno e l’altro per quella al cambiamento climatico.
Si tratta di due ERC Advanced Grant 2021, finanziamenti assegnati dallo European Research Council (ERC) a ricercatori affermati nel loro settore, per portare avanti progetti innovativi e ad alto rischio. La selezione per questo tipo di finanziamenti è molto competitiva: quest’anno, su 1735 progetti presentati, solo il 14,6% ha ottenuto i fondi. Con questi due progetti, il Politecnico di Milano ha ottenuto in totale 86 Individual Grant Europei (tra ERC e Marie Curie).
SUPERCOMPUTER CHE CONSUMANO 5000 VOLTE MENO ENERGIA
Daniele Ielmini, docente presso il Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, condurrà ANIMATE (ANalogue In-Memory computing with Advanced device Technology), un progetto che mira a realizzare un nuovo concetto di calcolo per ridurre il consumo energetico nel machine learning. Quando usiamo il computer non ci pensiamo, ma il costo energetico delle azioni che compiamo su internet, a partire da quelle quotidiane, è molto alto. I data center, che oggi soddisfano gran parte del fabbisogno mondiale di intelligenza artificiale, consumano oggi circa l’1% della domanda energetica globale, con una crescita prevista fino al 7% nel 2030.
Operazioni apparentemente semplici, come la ricerca di un prodotto o un servizio di largo consumo (ad esempio quando prenotiamo le vacanze o scegliamo un film in streaming) si basano su algoritmi ad alta intensità di dati e hanno un impatto importante sulla produzione di gas serra: è stato stimato che il training di una rete neurale convenzionale per l’intelligenza artificiale produce la stessa anidride carbonica di 5 auto nel loro ciclo di utilizzo completo.
La ricerca preliminare di ANIMATE del professor Ielmini ha dimostrato che il fabbisogno energetico di calcolo può essere ridotto mediante il closed-loop in-memory computing CL-IMC (calcolo in memoria ad anello chiuso) in grado di risolvere problemi di algebra lineare in un solo passaggio computazionale. In CL-IMC il tempo per risolvere un determinato problema non aumenta con la dimensione del problema, a differenza di altri concetti di calcolo, come i computer digitali e quantistici. Grazie alla riduzione del tempo di calcolo, CL-IMC richiede 5.000 volte meno energia rispetto ai computer digitali a pari precisione in termini di numero di bit. Il progetto di Ielmini svilupperà la tecnologia del dispositivo e dei circuiti, le architetture di sistema e l’insieme di applicazioni per validare completamente il concetto di CL-IMC.
CONTRO IL TUMORE AL SENO, UN PROTOCOLLO PER NEUTRALIZZARNE LA BARRIERA NATURALE
Manuela Raimondi, docente del Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta”, combina meccanobiologia, bioingegneria, oncologia, genetica, microtecnologia, biofisica e farmacologia al fine di sviluppare nuovo metodo per la cura del tumore al seno.
In questo tipo di malattia, infatti, l’aggressività è correlata all’irrigidimento fibrotico del tessuto tumorale. La fibrosi impedisce progressivamente ai farmaci di raggiungere le cellule tumorali, a causa della formazione di una matrice con proprietà meccaniche che stabilizzano la rete vascolare del tumore. Raimondi sta sviluppando una piattaforma in grado di ricapitolare la fibrosi tumorale sfruttando la vascolarizzazione di un organismo vivente.
Il progetto si chiama BEACONSANDEGG (Mechanobiology of cancer progression): modellizzerà dei microtumori a vari livelli di fibrosi aggirando il fatto alcune caratteristiche del tumore non sono riproducibili in vitro. Verranno utilizzate delle cellule di cancro al seno umane fatte aderire a microsupporti polimerici 3D. I microtumori verranno impiantati in vivo nella membrana respiratoria di uova aviarie embrionate, al fine di suscitare una reazione fibrotica da corpo estraneo nei microtumori. Verrà variata la geometria dei microsupporti 3D per condizionare l’infiltrazione dei microtumori da parte dei vasi e delle cellule dell’embrione. Questo modello di studio verrà validato con farmaci antitumorali il cui risultato clinico è noto dipendere dal livello di fibrosi tumorale.
Il lavoro fornirà inoltre una piattaforma standardizzabile ed etica per promuovere la traslazione clinica di nuovi prodotti terapeutici in oncologia. Questo è un tema chiave per Raimondi: alcuni degli strumenti di ricerca e modellizzazione che ha sviluppato negli ultimi dieci anni hanno proprio questo obiettivo: ridurre drasticamente o sostituire le fasi di sperimentazione pre-clinica in vivo, per esempio, con l’uso di supporti 3D per colture cellulari e camere microfluidiche per la cultura di tessuti e organoidi (ne abbiamo parlato nel numero 6 di MAP).
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